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La leggenda della Mea e il Carnevale di Bibbiena

 

Lettera del Dott. Giuseppe Jetta al Prof. Giovanni Giannini

Bibbiena, 4 Ottobre 1897.
ILL. MO SIGNORE
Esse (le Feste) hanno luogo l' ultimo giorno di Carnevale in due piazze differenti del paese e in ore diverse: prima in Piazza Grande - o Piazza Pier Saccone Tarlati -, e qui la festa prende il nome di Bello Ballo; poi in Piazzolina (oggi Piazza Roma), ove chiamasi Bello Pomo.
Subito dopo pranzo, due gruppi di suonatori vanno girando per le vie del paese a raccogliere denaro: gli uni per il Bello Ballo, gli altri per il Bello Pomo, fermandosi sotto le finestre delle case signorili e di faccia alle porte dei negozi e chiedendo con suoni e con evviva il consueto regalo. Quando appare il padrone o il servitore ad offrire danaro o vino, ne è ringraziato con altri suoni e con nuovi battimani. La raccolta vien fatta dai due gruppi contemporaneamente, e quando è terminata, quelli del primo si adunano in Piazza Grande ed incominciano i canti, ai quali tien dietro il ballo. La fanfara, raccolta presso la fonte (1), è circondata dalla folla, che su di un motivo uniforme e monotono canta a squarciagola questa ballata.

 

"Eran le Fondaccine che han fatto un ballo,
Bello ballo per amor;
Eran le Fondaccine che han fatto un ballo.
In mezzo di quel ballo e' è nato un pomo,
Bello pomo per amor;
In mezzo di quel ballo e' è nato un pomo.
Di là ne viene un uomo, padron del pomo,
Bello pomo per amor;
Di là ne viene un uomo, padron del pomo.
Càvasi le scarpette, s' alza nel pomo,
Bello pomo per amor
Càvasi le scarpette, s' alza nel pomo.
Sale di rama in rama fino alla cima,
Bella cima per amor;
Sale di rama in rama fino alla cima.
Colse le tree ramelle delle più belle,
Belle belle per amor;
Colse le tre ramelle delle più belle.
A ognuna ne diè una, salvo alla bruna,
Bella bruna per amor;
A ognuna ne diè una, salvo alla bruna.
- E ben ch'io son brunella, son la più bella,
Bella bella per amor;
E ben ch'io son brunella, son la più bella."

A questo punto cambiano tono e proseguono

"La Brunettina mia
Con l'acqua della fonte
La si bagnò la fronte
Il viso e il petto.
Un bianco guarnelletto
E' quel con che si veste,
E pel di delle feste
Quel si adopra.
Non ha con che si copra
Nè scuffie, nè scuffiere,
Come voi donne altiere,
Alte, superbe.
Una ghirlanda d' erbe
La porta nella testa,
E, vagheggiando, è onesta
E costumata.
La so ne va scalzata
Per infin al ginocchio,
E con festa e buon occhio
Sempre ride.
La sua bellezza uccide
Elci fa sempre guerra
Ci manda sotto terra
Il suo bel viso.
Se fossi in Campo Eliso,
Fra balli, suoni e canti,
Io là starei davanti
Al suo bel viso."


Terminati i canti, cominciano le danze sotto le logge della stessa piazza; fino a pochi lustri indietro, si ballava solo il trescone, caratteristico ballo toscano, in cui l'uomo sgambetta, si contorce, s'inginocchia dinanzi alla donna, la quale fa un solo movimento simile a quello delle donne napoletane quando ballano la tarantella; ma,ora si ballano di preferenza la polka e il valzer.
Alle tre precise il suono della campana della torre del 1' antico castello, ora quasi interamente distrutto, annunzia che le baldorie del Bello Ballo debbono cessare, e la folla si riversa correndo
sull' altra piazza, ove è eretto un grosso ginepro, già in preda alle fiamme, che s' innalzano alte quasi quanto le case. ,

I contadini delle compagne vicine, che numerosi accorrono alla festa, traggono auspici per la raccolta della buona o cattiva riuscita del falò, e quando il ginepro brucia per intero, mostrano con applausi la loro gioia. Intanto il popolo; adunato attorno all' albero in fiamme canta le seguenti canzoni:


"Guarda lassù quel monte
dove tramonta il sol !
A'piedi di quel monte
e' é una chiara fontan
E dentro ci si bagnano
tre donne di Toscan :
Una ha nome Giulietta
e l'altra la Maggioran ;
Quest'altra è la più bella
della stella Dian.
La Mea la fa il bucato
per contentar suo amor;
La Mea la lo lava
alla fonte d'amor;
La Mea la lo rasciuga
alla spera del sol ;
La Mea la lo ripiega
all' ombra dell'allor :
L' alloro l'era verde,
la Mea l'addormentò.
Di lì passò il suo amore, -
la Mea la sospiró.
Non sospirar più Mea, -
che io ti voglio sposar. -
Le vie le son sassose, -
i cavalli sono sferrà,
Suo padre alla finestra;
Lasciatela pure andar!
I fiumi son correnti,
la non potrà passar.
Suo padre alla finestra;
Lasciatela pure andar!
Trovò un bàrcarolo :
Mi vuoi tu imbarcar?
Amor, se sei Giulietta,
amor senza denar,
Suo padre alla finestra:
Lasciatela pure andar!
Mette mano alla borsa,
per voler pagar.
Cento zecchini d' oro
e borsa ricamà,
Amor, se sei Giulietta,
amor senza denar,
Suo padre alla finestra:
Lasciatela pure andar!"


Ai canti del popolo rispondono, ogni due versi, le note della fanfara, che è collocata su panche di legno, in un angolo della piazza.
Quando le fiamme cessano e resta il solo tronco del1' albero, questo viene abbattuto e fatto ardere a pezzi fino all'ultimo frammento sul luogo dove era stato innalzato.
Mentre ciò avviene coloro che sono andati pel paese a raccogliere regali fanno fra loro dei curiosi brindisi. Uno di essi tiene fra le mani un fiasco pieno di vino, e tutti insieme cantano così:

"Evviva il vino,
Il vino della frasca
Che, colla tazza in mano,
Il mio compagno versa !
Compagno, dammela,
Come fanno i nostri amici,
Suonando le piffere,
Facendo cosi !
gli e gli e gli lallallerallera
gli e gli e gli lallallerallà."

Giunti alla fine dei versi: Suonando le piffere, Facendo così, colui che tiene il fiasco lo cede ad uno dei suoi compagni, il quale beve fin che vuole, o meglio, finchè può, intanto che gli altri ripetono:

"gli e gli e gli lallallerallera
gli e gli e gli lallallerallà."

Allora colui che ha bevuto ripete il canto, tenendo alto il fiasco, che poi offre ad un altro, e via di seguito; così che la festa spesso finisce con sbornie solenni.
Esistono in paese, o piuttosto, esistevano, perchè ormai sono ridotte in extremis una Società del " Bello Ballo " e una Società del " Bello Pomo ,,. I membri di quest'ultima portano per distintivo un merlo vivo, legato per le zampe al nastro del cappello. (1)
Ogni anno dalla somma raccolta si toglie tanto da far recitare una messa per ogni socio morto nel corso dell'anno.
Anticamente, gli ascritti alla Società del " Bello Ballo " si chiamavano Piazzolini, e gli aggregati a quella del" Bello Pomo " Fondaccini, perchè appartenenti ai due rioni di Piazza Grande e del Fondaccio.
Si racconta che era permesso ai Fondaccini di questuare nel rione di Piazza ed ai Piazzolini di raccogliere offerte nel Fondaccio; ma gli uni non potevano assistere alla festa degli altri. Al suono della campana dovevano subito cessare (come si fa anche ora) le danze del " Bello Ballo " e dopo guai a un piazzolino che fosse andato al " Bello Pomo "! Non una volta sola sono avvenute risse sanguinose, sia per aver qualcuno trasgredito questa legge, sia per le rivalità che sovente divisero il paese in due partiti in lotta fra loro.
Secondo la tradizione queste feste risalgono ai tempi di Pier Saccone Tarlati, il quale ebbe il dominio di Bibbiena, nel 1328, alla morte del Vescovo aretino Guido Tarlati di Pietramala, suo fratello. Però si va forse men lontani dal vero se si fanno rimontare soltanto al 1359, quando ne aveva la signoria Marco, figliolo di Piero.


(Andrea Neroni, Bibbiena, Guida storica, artistica e commerciale- Arezzo, Viviani, 1928)

La Leggenda della Mea
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